luglio 2024
Gli investitori cercano le risposte giuste alle domande sbagliate
Rob Almeida suggerisce che gli investitori dovrebbero preoccuparsi più dei fondamentali che dei possibili tagli dei tassi.
Robert M. Almeida, Jr.
Portfolio Manager e
Global Investment Strategist
Dopo l'imboscata tesa dalla crescita dei prezzi nel 2022, gli alti dati sull'inflazione sono diminuiti, al pari della sua volatilità, prendendo in contropiede gli investitori.
A fine aprile scrivevo che gli ultimi dati sull'inflazione erano superiori alle aspettative del mercato, come ben sapeva chiunque facesse la spesa o pagasse le bollette.
Una situazione analoga si è verificata nelle settimane appena trascorse, ma questa volta nella direzione opposta, in quanto i dati sull'inflazione diretta e indiretta hanno sorpreso al ribasso. Di conseguenza, si è tornato a parlare dei tagli dei tassi della Federal Reserve.
Non prendo sottogamba la crescente probabilità che il mercato attribuisce a una riduzione dei tassi in settembre o nei mesi successivi. Tuttavia, come suggerisce il titolo di questo articolo, ritengo possibile che gli investitori si stiano ponendo le domande sbagliate. Ha senso chiedersi quando è prevista la prima riduzione dei tassi o quanti tagli effettuerà la Fed nel 2024? Le risposte sono davvero importanti? Nel 2028, esaminando l'attribuzione della performance quinquennale di un portafoglio, i tempi di quel primo taglio dei tassi saranno ancora determinanti?
Forse potrebbe essere più utile chiedersi perché le banche centrali potrebbero aver bisogno di allentare la politica monetaria. Soprattutto, se i prezzi di beni e servizi scendono, i ricavi di quali aziende ne risentono? Diminuiscono anche i loro costi? Cosa comporta tutto questo per gli utili societari rispetto a quanto scontato nelle quotazioni azionarie?
Insomma, il mercato applica di buon grado un multiplo più elevato agli asset rischiosi a fronte di un tasso di sconto potenzialmente più basso, ma ignora l'impatto della crescente debolezza sui fondamentali societari, che sono l'aspetto più rilevante per il valore degli asset.
Consideriamo ciò che è accaduto durante il ciclo di riduzione dei tassi d'interesse che ha seguito la fine del boom tecnologico negli anni '90.
All'inizio del 2001 il tasso sui Fed Fund ha raggiunto un picco del 6%. Colta di sorpresa da un brusco rallentamento della crescita, nei 18 mesi successivi la Fed ha ridotto aggressivamente i tassi d'interesse, portandoli all'1%. Sebbene il mercato azionario avesse raggiunto un minimo prima del penultimo taglio dei tassi della Fed, in quanto i profitti avevano già toccato il fondo ed erano avviati a migliorare sulla scia delle drastiche riduzioni dei costi, l'S&P 500 ha ceduto comunque quasi il 40%.
A questo ragionamento si potrebbe obiettare dicendo che oggi le valutazioni sono meno elevate di allora. L'obiezione è corretta: proprio per questo non intendo suggerire che si prospetta un drawdown di quella portata. Mi preme semplicemente sottolineare che i tagli dei tassi delle banche centrali non sono una panacea a breve termine per le aziende dai risultati operativi deludenti. Quindi, sebbene le valutazioni non abbiano raggiunto i livelli estremi degli anni '90 (i più alti mai toccati nella storia degli Stati Uniti), gli analisti prevedono una crescita degli utili a cifra singola elevata. Qualsiasi risultato inferiore a questo sarà considerato deludente dagli investitori che hanno alternative al di fuori dell'azionario.
Possiamo esaminare anche ciò che è accaduto durante il ciclo di riduzione dei tassi successivo all'espansione e alla bolla immobiliare della metà degli anni 2000, poiché alla vigilia di quella recessione le valutazioni azionarie non erano costose.
Come mostra il grafico in basso, il tasso sui Fed Fund ha segnato un massimo del 4,25% all'inizio del 2008, per essere poi azzerato entro la fine dell'anno. Al contempo, l'S&P 500 è arretrato di quasi il 50%.
Dal 2022 l'inflazione e la politica monetaria sono argomenti all'ordine del giorno. Forse lo sono persino da più tempo, dall'epoca delle politiche di tassi zero e del quantitative easing, che hanno spinto i costi di finanziamento sui livelli più bassi mai registrati.
Il "recency bias", insieme ad altre distorsioni cognitive, può essere pericoloso. Questi bias possono occultare, o quanto meno diluire, gli aspetti rilevanti, che nel caso degli investimenti sono i fondamentali e i cash flow futuri.
Le risposte giuste alle domande giuste, a mio avviso, hanno a che fare con il valore terminale. Cosa fanno le aziende? Come gestiscono l'aumento dei costi del lavoro di fronte al calo dei prezzi dei propri beni? È vero che l'intelligenza artificiale può essere foriera di efficienze e risparmi, ma non è che spalanca le porte a nuovi concorrenti che arrivano più velocemente sul mercato con prodotti uguali o persino migliori? L'IA comporta un rischio di obsolescenza per queste imprese? A quanto ammonta il debito che devono rifinanziare nei prossimi anni, e a quale costo? I modelli degli analisti azionari ne tengono conto?
Credo che stiamo procedendo verso il punto in cui le valutazioni saranno dettate dai fondamentali, anziché dai tassi di sconto o dalle manovre dei policymaker. Le banche centrali non possono risollevare le sorti delle aziende in crisi.
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